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sarapittaluga77

LA PLURIPREMIATA ARTE DI ESAURIRSI

Aggiornamento: 14 apr 2022

(E PERCHÉ BISOGNA PROVARE A FARNE A MENO)

“Se tolgo tempo a me riesco a fare più cose!” Questa frase me l’ha detta stamattina un’amica che si è infortunata a un ginocchio ma ha precisato che non farà la fisioterapia che le hanno prescritto perché “non ha tempo”. Ho ripensato a un’altra conversazione recente con una persona che mi raccontava di aver farcito l’agenda di impegni e di trovarsi perennemente in bilico fra il “ma lo volevo fare” e il “ma chi me lo fa fare”.

È una lotta che conosco bene, sia perché l’ho vissuta sottopelle per tantissimo tempo, sia perché la ritrovo, molto spesso, sul lettino del mio studio, addosso ai miei pazienti. Quel bisogno di fare di più, di spingere sull’acceleratore delle proprie giornate e delle proprie agende, a cui si associa quasi sempre un valore eroico, un nobile volersi migliorare, superare i propri limiti.

Del resto, la letteratura in merito è fornitissima, nel mondo anglosassone si sprecano i libri e i programmi (rigorosamente in ‘steps’, quindi in misurabili passaggi) dai titoli ammiccanti come “How to become better”, “Self growth tips” e il mio preferito di sempre: “How to be yourself, fully”. Dei passaggi per diventare un eroe ne ha parlato, fra gli altri, anche Vladimir Propp, antropologo russo che già nel 1928, nel suo “Morfologia della fiaba” aveva messo in evidenza come le storie abbiano sempre uno schema, e come il protagonista, a un certo punto, debba reagire per sconfiggere il cattivo di turno.

Nei libri e sugli schermi, quindi in quasi tutte le storie che ci infiliamo nelle orecchie e nelle budella, va più o meno così: il personaggio principale deve fare un allenamento (e fin qui tutto bene, perché no), poi durante la sfida prende un sacco di mazzate e quando ormai è stremato e tumefatto raccoglie le energie che gli sono rimaste e sferra l’attacco finale, vincendo. Nella vita reale, però, le cose sono un filo più complicate: il nemico non ha le sembianze di un guerriero sanguinario ma quelle di una quotidianità fatta di routine che si ripetono, un castello che ogni giorno cerchiamo di tenere in piedi infilandoci dentro di tutto e di più. Quella lotta, che nelle storie capita sempre al massimo due o tre volte (se siamo, per dire, in un film della Marvel, una sarà solo l’antipasto), a noi capita ogni giorno. Ci rialziamo ogni volta, quando siamo già esausti, perché “non abbiamo tempo” e “così riusciamo a fare più cose”.

Vogliamo fare tutto, soprattutto ora che per per due anni non siamo stati liberi di farlo. Ci sono però una sfilza di aspetti di cui non si tiene quasi mai conto. Intanto, non siamo robot. Salvo gli atleti (di cui però parlerò dopo, perché non sono robot neppure loro) noi comuni mortali non abbiamo prestazioni misurabili facilmente. A quello che facciamo va sempre aggiunto il carico emotivo con cui lo facciamo, che è un materiale sottile, complesso, difficile da mettere a fuoco. Un groviglio fatto di storia personale, relazioni presenti e passate, carattere e attitudine, contesto sociale e familiare, percezione di sé e aspettative. Tanto per dire gli ingredienti principali.

Stesso discorso vale per la stanchezza, la cui misura non è semplicemente la velocità con cui ci mettiamo a russare una volta toccato il cuscino, ma un sapersi ascoltare e capire che cosa abbiamo veramente digerito e cosa no e a che punto siamo del nostro serbatoio di energie. Senza citare l’importanza di fare un check sincero per capire dove vogliamo andare (ah i cambi di rotta, quanto non ci piacciono e quanto sono essenziali). Qualcosa, per fortuna, si sta muovendo, ma per lo più quando si è sotto gli occhi di tutti. Penso all’atleta olimpica Simone Biles, che nell'estate 2021 si è ritirata dalle gare a Tokyo per motivi legati allo stress (dando anche un nome ai demoni o blocchi mentali che la affliggono, i “twisties”). O a Naomi Osaka, tennista nipponica eliminata al terzo turno a causa dell’incapacità di gestire la pressione e Michael Phelps, campione pluripremiato che ha un certo punto ha combattuto contro depressione e ansia.

C’è sempre più attenzione alla salute mentale, ma cosa succede quando si tratta di casi meno eclatanti e di livelli di stress considerati ‘normali’? Quando restiamo adulti funzionali, riusciamo a tenere in piedi le mille attività e l’unico piccolo dettaglio è che non sappiamo riconoscere quando stiamo tirando troppo la corda (spoiler: ce ne accorgiamo quando è già tesa oltre il tempo massimo)?

In nessuna storia l’eroe o l’eroina vengono invitati dall’aiutante di turno a fermarsi, ascoltarsi e connettersi profondamente col proprio bisogno di recupero. L’unico riposo se lo era concesso - e nemmeno per suo merito - la Bella Addormentata e infatti sappiamo chi aspettava. L’arte di sapersi esaurire è pluripremiata, quella di saper dosare le proprie risorse e ricaricarsi è quasi ancora tutta da scoprire.

Oltre a imparare a riposare il corpo, cosa sacrosanta, ci dovrebbe essere anche attenzione verso le emozioni, che richiedono tempi misteriosi e imprevedibili di digestione. Ma che quasi sempre danno segnali chiari a riguardo, se impariamo ad ascoltarli. Ci sono situazioni nella nostra vita che si ripetono? Abbiamo delle condizioni che ci fanno scattare sempre una certa risposta emotiva? Sentiamo dentro come una febbre di fare che ci porta subito a riempire il tempo? Cosa sentiamo, profondamente, se non facciamo? In cosa ci sentiamo “meno”? E soprattutto: dopo tutto questo fare, riusciamo ad arrivare a una pace profonda o solo a un rapido stop prima di rimetterci sulla ruota?

Ho scritto questa riflessione, non a caso, lo scorso autunno, stagione del riposo per eccellenza. Un riposo che in natura è evidente, dichiarato, necessario per attivare i processi di trasformazione, se di trasformazione profonda e reale vogliamo che si tratti. Se ci riposiamo, se dedichiamo del tempo agli scossoni che ci siamo tenuti nell’animo per due anni o per tutta la vita, se ascoltiamo le nostre nuove sincere esigenze forse faremo meno cose. Ma faremo quelle che ci fanno bene davvero.

[Photo Credits: ROMAN ODINTSOV from Pexels]

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