Quando uscì il movimento #metoo feci fatica a empatizzare con le vittime.
“Ma non sapevano che si infilavano in situazioni pericolose?” mi chiedevo.
Celava una convinzione semplice che all'epoca ignoravo cosa significasse : io ero più scaltra, a me non sarebbe successo.
Per fortuna parlai con l'amica che aveva fatto il corso sulla violenza domestica, che mi aprì gli occhi: “Stai ragionando come il patriarcato ti ha insegnato a ragionare, cioè scaricando la responsabilità dell'abuso sulla vittima”. Boom. Mi spiegò che durante il corso, quando avevano mostrato loro filmati di donne che non riuscivano a lasciare le case che condividevano con il loro partner violento, anche lei aveva avuto una reazione forte. “Ma perché non va via? Cosa la tiene lì? Ma allora ci mette del suo!”. No, non ce lo mette. Le spiegarono i sottili meccanismi psicologici per cui una vittima viene annientata con la paura, è disconnessa dal proprio valore, perde ogni fiducia nella possibilità di uno scenario migliore. Quella è la sua realtà e non vede alternative. Da quel giorno è passato qualche anno e io ho continuato a interrogarmi e a esplorare il tema vittima/carnefice.
In questi tempi di meritocrazia, umiliazione come “fattore fondamentale della crescita” (parole del ministro dell'istruzione Valditara, nientemeno) e violenza diffusa mi chiedo quale sia il cortocircuito.
Cosa ci fa, in quanto vittime, diventare tiranni?
Cosa ci toglie l'empatia e chiedere di alzare muri e barriere per allontanare l'altro che affronta situazioni inumane?
Cosa ci fa imporre il nostro modo di vedere agli altri e se non riusciamo a esercitare il controllo a diventare manipolatori?
Ci sono tanti modi di essere violenti, ma mi sembra si giri sempre intorno allo stesso punto: non accettare l'altro, la sua storia, la sua verità. E la sua libertà di vivere come crede.
Grazie al lavoro del Dottor Gabor Maté, ho capito che alla radice c'è spesso un trauma: chi impone la sua visione lo fa come reazione a quell'esperienza dolorosa.
Faccio qualche superficiale esempio: mi è mancato un genitore e allora divento paladino della “famiglia tradizionale” (questa creatura mitologica che esiste quanto gli unicorni), ho sofferto nel mio rapporto col complessissimo mondo della maternità e mi scaglio contro la scelta di abortire, mi sono sentito a un certo punto umiliato e oggi lo rivendico come un passaggio importante che voglio provino tutti, vengo lasciato e non accetto l'abbandono e perseguito.
Cosa ottiene chi impone in queste situazioni: l'illusione di essere dalla parte di chi decide, e di mettersi lontano dagli scomodi panni della vittima.
Quanto è più facile lodare la meritocrazia, rassicurarsi con quel “a me non sarebbe successo”, aggiungere pure un “se faccio così a me non succederà”, invece di affrontare il mostro immenso del “potrebbe succedere anche a me. Di nuovo. Sempre”.
E se capitasse a me, chi vorrei davanti: chi mi tenderebbe una mano o chi mi lascerebbe cadere per proteggere la sua posizione al riparo dal dolore?
Capire che posizione abbiamo nella scala del privilegio e quanto siamo imbevuti di cultura patriarcale aiuta, ma bisogna rimboccarsi le maniche.
Fra le esperienze “spalanca occhi”, oltre a tutto il lavoro del dottor Maté, segnalo il “Privilege test” di Justin Michael Williams (chiedete a Google e vi sarà dato).
L'empatia si può imparare, ma ci vuole un salto di consapevolezza, individuale e collettivo.
Altrimenti, continueremo questa danza di vittime e carnefici in cui i ruoli si invertono senza che nessuno se ne accorga e, peggio, senza che nessuno muova un dito.
Photo: Tom Chrostek da Unplash
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