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sarapittaluga77

Tu non sei solo (e se ti ci senti, sei ‘solo’ disconnesso)

Nel 2014 ho fatto un tuffo nei luoghi bui della depressione.

Quello che so ora è che tutto era stato scatenato da un grande cambiamento che il mio sistema non sapeva gestire, che la mia nuova realtà mi aveva ‘riattivato’ un trauma risalente all’infanzia e che, nella smania di incastrarmi nel nuovo, avevo messo una maschera e mi ero dimenticata di me. Questo l’ho capito dopo 4 anni di incontri con una counsellor sensibile e preparata e con un anno di terapie somatiche (fra cui, in cima a tutte, il metodo Grinberg, che va a stanare nel corpo le tensioni con cui reagiamo allo stress).


In quel periodo, invece, mi sentivo solo travolta da un’incapacità di affrontare le giornate, mi svegliavo con il cuore in gola alle 5 ogni mattina e al pensiero di dover affrontare il mondo galleggiavo immobile in una disperazione senza uscita.

Devo, a quei giorni (che per l’esattezza sono stati 8 mesi), tutto quello che è venuto dopo e quello che sono oggi: grazie all’aver esplorato diverse discipline, quando ho trovato quelle che per me funzionavano ho intrapreso il percorso per diventare, a mia volta, terapista. 

Da allora indago i temi dello stress e della salute mentale e spero sempre, non solo coi miei pazienti ma anche con chi incontro per caso, di riuscire a piantare un seme di speranza.

Voglio poter dire a chiunque sia in un momento del genere quello che avrei voluto dire alla me di allora, che non vedeva la fine del tunnel: invece può arrivare, e non serve necessariamente avere molte energie, grandi obiettivi o una prospettiva di lungo termine. Basta riuscire a mettere un passo dopo l’altro, con curiosità, verso la possibilità che le cose siano diverse. Soprattutto, per prima cosa, bisogna chiedere aiuto, perché ‘ce la devi fare da solo’ è una frase che non diremmo mai a qualcuno ferito, quindi perché dirla a noi stessi quando lo siamo?

Qui di seguito alcune cose che ho capito e che mi hanno, nel tempo, aiutato a  ritrovare entusiasmo, slancio e voglia di vivere esattamente come sono (quest’ultimo è un punto fondamentale sui cui tornerò).


IL CORPO LANCIA MESSAGGI. 

Più sono scomodi più è il caso di ascoltarlo (spesso sono scomodi perché finché sussurrava non lo abbiamo fatto).

Il primo momento di ‘scossa’ lo devo a un autore, Gabor Maté, medico con un approccio integrato e profondamente umano sul tema della malattia e le sue cause. Aver letto, in quei giorni, il suo ‘When the body says no’ (‘Quando il corpo dice no’) mi ha messo in un ascolto completamente diverso del mio, che sentivo ostile ed estraneo. “Quando non siamo stati messi nelle condizioni di imparare a dire NO, il nostro corpo potrebbe finire per dirlo per noi”. SBAM. Ho cominciato a domandarmi che messaggi mi stesse mandando il mio e perché avesse deciso di farlo in quel modo. Soprattutto, ho cominciato a stare dalla sua stessa parte, e qui viene il punto due, nocciolo di (quasi) tutti gli inghippi relativi al nostro stare bene.


QUANDO SIAMO FERITI CI DISCONNETTIAMO.

Questa disconnessione è alla base del nostro malessere. È proprio come non essere più in noi stessi, in grado di percepire il nostro corpo, il nostro mondo emotivo, quello che ci circonda e le relazioni fra noi, gli altri e il tutto. 

Vediamo perché.

Come dice sempre Maté (questa volta in ‘The Myth of normal - illness, health and healing in a toxic culture’) quando parliamo di trauma possiamo fare una macro distinzione fra Traumi con la T maiuscola e traumi con la t minuscola. I primi sono macro eventi che NON sarebbero dovuti capitare a individui vulnerabili: abusi nell’infanzia, un divorzio pieno di rancore, la morte di un genitore. I secondi sono eventi molto meno memorabili ma che lasciano ferite profonde nell’animo dei bambini: essere presi di mira a scuola, i commenti duri di un genitore o la mancanza di connessione emotiva con gli adulti di riferimento. Come riassume efficacemente lo psichiatra Bessel van der Kolk, “il trauma è quando non siamo visti e riconosciuti”.

Tutti i problemi che seguono nel nostro corpomente (che anche a me piace scrivere tutto insieme, come alla mia saggissima amica Nina Gigante) derivano da questa frattura che si crea, quella che il biofisico Peter Levine (altro pioniere nel campo del trauma e della guarigione somatica) definisce “perdita di connessione: con noi stessi, con le nostre famiglie e con il mondo che ci circonda”.

Questa frattura diventa il modo in cui vediamo la realtà, come attraverso un paio di lenti rotte. È una disconnessione interiorizzata, profonda, di cui non sempre ci accorgiamo, perché non è così automatico risalire a cosa ci ha ferito, soprattutto quando si tratta dei traumi con la t minuscola. Nel mio caso, per esempio, il trauma all’origine del crollo del 2014 erano gli anni infantili in una scuola cattolica, in cui mi ero sentita imbrigliata in regole a cui sottostavo a fatica (proprio come mi sono sentita poi andando a vivere a Londra e dovendo integrarmi nella cultura britannica). 


METTERCI UNA MASCHERA PER SENTIRCI ‘NORMALI’ È UNA PESSIMA IDEA.

Siamo ‘progettati’ con un bisogno di appartenenza. 

Questo ha diversi motivi biologici legati al garantire l’evoluzione della specie: sopravvivenza (in gruppo siamo meno vulnerabili), riproduzione (da soli non si può fare), protezione (creiamo alleanze per evitare o affrontare i conflitti). Da qui derivano la paura dell’essere respinti (e quindi isolati) e l’ansia sociale (il non riuscire a trovare un gruppo che ci accolga). Lo psicologo evoluzionista inglese Robin Dunbar, che si è occupato proprio di questi temi, nel suo libro “Grooming, gossip and the evolution of language” racconta come certi comportamenti sociali, come il gossip, si siano evoluti proprio per darci modo di raggrupparci e creare legami (ma io, da sempre fedele a Vanity Fair, lo so bene!).

Proprio sul mio giornale preferito, nel numero 37 dell’11 settembre 2024, Andrea Colamedici e Maura Gancitano (gli acuti pensatori di Tlon) hanno scritto un articolo sul rapporto fra ‘normalità’ e violenza, sul nostro bisogno di pensare (sbagliando) che in certe famiglie e ambienti, ‘normali’ appunto, il male non possa arrivare. Invece anche la violenza è una realtà della complessa condizione umana, ed è necessario ‘creare una cultura che valorizzi l’autenticità e il benessere emotivo più dell’aderenza forzata a standard di normalità insostenibili’. Il mito del normale, di nuovo. Questo volerci sentire ‘come gli altri’, voler soffocare i nostri bisogni se ci sembra che non possano essere accolti e capiti, questo fingere di sentirci ed essere come non siamo ha un peso che, presto, diventa insostenibile per la nostra anima. Una delle tanti frasi che ricorderò per sempre della mia terapista del cuore (che ora non c’è più) era “Ma non puoi non essere d’accordo con te stessa!”. Già. Ma quanto ci provavo (e creavo la famosa disconnessione di cui sopra).


QUELLO IN CUI CREDIAMO CREA IL NOSTRO MONDO.

Una volta che abbiamo indossato le lenti rotte del trauma (con qualunque t) cerchiamo sempre conferme. E ovviamente le troviamo, perché quelle lenti diventano il binocolo con cui scansioniamo la realtà. Semplificando di molto, se il trauma ha scatenato rabbia probabilmente avremo come risposta automatica l’ATTACCO (e quindi attireremo spesso situazioni di conflitto), se invece il sentimento dominante è stato la paura tenderemo a FUGGIRE (e quindi vivremo spesso di occasioni mancate, dandocela a gambe prima). Se non avevamo gli strumenti per reagire, abbiamo soppresso nel CONGELAMENTO il corpo e le annesse emozioni, e se ci siamo sentiti non al sicuro nei confronti di una figura chiave per noi (un genitore, un partner, un insegnante) potremmo sviluppare atteggiamenti remissivi e accomodanti (il FAWNING, ovvero la compiacenza) in cui ignoriamo i nostri bisogni per diventare ‘amabili’. Ognuna di queste reazioni si esprime in mille modi nel nostro sistema di credenze, nei nostri comportamenti, nelle nostre scelte. Se non ci esercitiamo a osservare come funzioniamo, se crediamo a ogni nostro pensiero, se ci convinciamo che ‘le cose stanno così’, diventiamo vittime di gabbie che ci creiamo da soli. 

Realizzare che tutto è un interessante punto di vista, e che possiamo cambiare tutti quelli che non ci funzionano più (all’infinito!) ci libera e apre la nostra vita a sorprendenti possibilità.


Per esempio, io questa sera cercavo invano una poesia sulla speranza, e ho osato chiederne una a ChatGPT. Ecco cosa ha creato:


THREAD OF US

We drifted like clouds, apart in the sky,

silent as time slowly passed by.

But one small spark, a word, a glance,

And suddenly, we had a chance.


A thread unseen pulled heart to heart,

to weave the bond we had at start.

In quiet moments, we found again,

the path we lost, but never in vain.


Bibliografia:

Gabor Maté, When the body says no: exploring the Stress-disease connection, John Wiley and Sons, 2003

In italiano: Quando il corpo dice no, Casa Editrice Astrolabio, 2005

Dello stesso autore, with Daniel Maté, The Myth of Normal - illness, health and healing in a toxic culture, Penguin Random House, 2022

In italiano: Il mito della normalità, casa Editrice Astrolabio, 2023

Peter A.Levine, Healing trauma: a Pioneering Program For Restoring the Wisdom of Your Body, Sounds true, 2005

Robin I.M. Dunbar, Grooming, Gossip and the Evolution of Language, Harvard University Press, 1998


Credit photo: Furkan Elveren per Pexels

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